Di Eugenio Nnziata
“Fragile” è ormai una parola molto utilizzata nel linguaggio economico. Può voler dire molte cose, a seconda del contesto, ma riflette la vulnerabilità percepita dei sistemi economici e produttivi. E “sopravvive il più adatto” non è sempre una consolazione.
La crisi permanente
Da anni viviamo una condizione definita di “policrisi” o “permacrisi”. Un susseguirsi di eventi inaspettati e di disastri di varia natura – geopolitici, economici, sociali, climatici, ambientali, sanitari – trasformano le crisi da emergenze temporanee in condizione permanente di instabilità e imprevedibilità del contesto. Anche il linguaggio economico e aziendale si è evoluto per riflettere queste percezioni da parte di imprese, istituzioni e attori sociali.
Un’analisi condotta con ChatGPT-OpenAI, basata su tecniche di NLP e text mining su oltre 50mila documenti (database accademici, report ufficiali e archivi giornalistici), ha evidenziato come la retorica della “fragilità” sia cresciuta negli ultimi venti anni, riflettendo le molteplici crisi e l’incertezza globale.
Come è cambiata la rappresentazione del contesto
Anno per anno, l’analisi ha rilevato le occorrenze dei termini della famiglia lessicale “fragile” (inclusi instabile, incerto, discontinuo, imprevedibile), e dei termini della famiglia “forte” (inclusi stabile, certo, continuo, prevedibile), quando usati per descrivere fenomeni macroeconomici, politiche di sviluppo industriale, scambi commerciali, accordi internazionali, configurazione della catena del valore.
Le evidenze narrative sulla “fragilità” emergono nettamente a partire dalla crisi finanziaria 2007-2009 – con il fallimento di grandi istituzioni, la recessione e l’aumento della disoccupazione –, si accentuano poi con la pandemia del 2020 (che ha interrotto le supply chain, ridotto drasticamente domanda e offerta, provocando recessione globale e crollo del Pil) e con i conflitti del 2022-2023, che hanno fatto lievitare i prezzi dell’energia, delle materie prime e l’inflazione.
Parallelamente, l’uso dei termini della famiglia “forte” ha mostrato un trend relativamente stabile, con una chiara flessione negli anni post-pandemici, evidenziandone l’uso in determinati contesti per descrivere aspetti positivi come la crescita e la stabilità.
I contesti narrativi in cui la “fragilità” assume significato
Dalla letteratura emergono diverse accezioni del concetto “fragile”, interpretato a seconda del contesto narrativo, da una parte per evidenziare la vulnerabilità dei sistemi economici e produttivi, dall’altra per sottolineare i rischi derivanti dalla complessità e dall’interconnessione dei mercati globali.
Nel caso della vulnerabilità dei sistemi economici, “fragile” viene impiegato per descrivere le conseguenze derivanti dalla fluidità degli scenari macroeconomici, e per sottolineare come un’economia possa essere facilmente destabilizzata da perturbazioni finanziarie e geopolitiche. Se si vuole sottolineare l’incertezza negli accordi internazionali, “fragile” è usato per indicare l’instabilità e la complessità che caratterizzano i processi di negoziazione e attuazione. Nel contesto della precarietà nella catena del valore e della globalizzazione, “fragile” si riferisce a una struttura produttiva altamente efficiente anche se spesso frammentata tra numerosi attori, e quindi esposta al rischio di interruzioni in qualsiasi fase del processo, dall’approvvigionamento, alla produzione, alla distribuzione. Infine, quando si tratta della discontinuità della supply chain, “fragile” si riferisce alle fonti di approvvigionamento che, sebbene sufficienti in condizioni normali, possono essere facilmente compromesse in presenza di crisi.
La “fragilità” del contesto e la percezione degli attori economici
Se questo è il racconto che oramai si fa del contesto esterno, occorre verificare come di pari passo sia cambiato anche il linguaggio attraverso il quale le imprese si rappresentano all’interno di esso, con le loro strategie e le loro scelte organizzative.
Pure in questo ambito il linguaggio si è evoluto negli ultimi anni, ma con dinamiche diverse. Anche nella letteratura aziendalistica si rileva un trend più sostenuto nell’uso dei termini della famiglia lessicale “fragile”, anche se con una frequenza ancora molto inferiore (media 120 occorrenze/anno) rispetto all’uso che se ne fa nella letteratura economica (media 550 occorrenze/anno).
Lo dimostrerebbe l’analisi quantitativa e semantica condotta su articoli scientifici, riviste manageriali e report dei centri di ricerca nel campo delle discipline aziendalistiche, manageriali e organizzative. Un cambio di narrazione che dà il segno – seppur tardivo – di una revisione critica di quella che era la percezione diffusa tra le imprese, le istituzioni e gli attori sociali, di operare in un contesto sicuro e prevedibile.
Dopo decenni di continua crescita, l’aggettivo “forte” e suoi sinonimi, riferito alla vita delle imprese, cominciano a essere meno utilizzati solo alcuni anni dopo la crisi finanziaria del 2008, nonostante già da tempo emergesse un susseguirsi di eventi che connotavano lo scenario globale come vulnerabile, precario, incerto, discontinuo. Un calo che nel 2020 accelera con la crisi pandemica e quella climatica.
Il trend più sostenuto nell’uso dei termini della famiglia lessicale “fragile” riflette il crescere di una consapevolezza riguardo la vulnerabilità dei sistemi produttivi e dei sistemi sociali, e la necessità di riconoscere che si hanno da gestire non più solo crisi derivanti da rischi intesi come situazioni prefigurabili e gestibili (risk management), bensì “disastri” prodotti da eventi improvvisi o dall’imprevisto inaspettato. La novità per le organizzazioni di qualsiasi natura, quindi, è che lo stato conseguente a un “disastro” non può essere definito una “emergenza”, una “sospensione della normalità” in attesa del ritorno alla normalità, bensì la “rottura” di un equilibrio che necessita di strategie di risposta appropriate tese alla costruzione di volta in volta di una diversa normalità.
Le condizioni di sopravvivenza dei sistemi sociali e organizzativi
La letteratura evidenzia varie accezioni del concetto “fragile” in relazione a scelte imprenditoriali, pianificazione strategica, assetti produttivi, modelli organizzativi e stili di gestione manageriale.
“Fragile” può essere infatti riferito a una condizione in cui una strategia di business risulta altamente suscettibile a perturbazioni esterne, compromettendo l’efficacia delle scelte imprenditoriali (vulnerabilità strategica). “Fragile” si trova anche riferito al rischio di previsioni aziendali e di decisioni costruite con informazioni incomplete che possono portare a risultati non affidabili (condizione di incertezza previsionale). Oppure la “fragilità” è conseguente ad alcune condizioni di rigidità degli assetti produttivi tali da subire interruzioni o inefficienze conseguenti a shock esterni (instabilità operativa). Infine: la “fragilità” è vista come rischio di “rottura” di sistemi organizzativi rigidi, poco dinamici, incapaci di adattarsi e modellarsi velocemente in presenza di ambienti in rapido mutamento (affidabilità dei processi manageriali).
Non il più forte, ma il più adatto al contesto
L’analisi sembrerebbe confermare che i sistemi economici, produttivi e sociali spesso non riconoscono tempestivamente la fragilità del contesto. Da un lato, il sovraccarico di eventi inaspettati e l’eccessivo rumore di fondo offusca i “segnali deboli” utili a una organizzazione per reagire tempestivamente senza subire gli eventi. Dall’altro, i “bias cognitivi” distorcono la percezione, sottostimando la probabilità che eventi al di fuori del conosciuto si verifichino, oppure privilegiano decisioni finalizzate a preservare gli equilibri conquistati.
Edgar Morin sosteneva che la crisi non può essere considerata solo come fattore regressivo, perché gli shock conseguenti potrebbero fornire i presupposti per intraprendere azioni nuove e diverse e portare a innovazioni e opportunità di cambiamenti positivi per lo sviluppo del sistema. Nassim Nicholas Taleb avanza il principio di antifragilità, sostenendo che l’evoluzione è basata sul miglioramento tramite l’apprendimento continuo. I sistemi che dimostrano maggiore capacità di apprendere imparano ad adattare le proprie risposte per convivere con l’imprevisto e l’inaspettato. Non necessariamente il più forte, bensì il più adatto al contesto. Una visione evoluzionista che applicata ai sistemi economici significherebbe affermare che sopravvivono quei soggetti (imprese, istituzioni, gruppi sociali) che dimostrano sufficienti capacità di apprendimento e trasformazione. Ma quanti altri sarebbero destinati a scomparire?
Fonte: Lavoce.info
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