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Oriente Occidente di Rampini | Come sopravvivere ai dazi di Trump? Prima bisogna capirli

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In Italia c’è chi pensa che contro Donald Trump serve l’esorcismo. Ci si alza ogni mattina urlando quanto è brutto e cattivo il 47esimo presidente degli Stati Uniti; si esclama che le sue azioni porteranno alla rovina prima di tutto l’America stessa. E così si spera che il Mostro venga inghiottito nel nulla. O che gli americani trovino qualche modo per eliminarlo, o neutralizzarlo. O che una santa alleanza di tutti gli altri (Europa, Cina, Grande Sud globale) metta in ginocchio l’arrogante Bullo Americano.

Poiché non credo a esorcisti e sciamani, suggerisco una strada più faticosa, a tutti coloro che temono (con buone ragioni) di subire dei danni dal protezionismo. Prima di tutto bisogna capirlo, studiarne le radici profonde, le argomentazioni. Se ci si limita a liquidare l’attuale protezionismo Usa come una idiozia, si resta nel regno dell’esorcismo. Si dimentica, fra l’altro, che nella storia ci furono altre stagioni di regressione del commercio mondiale, altri esperimenti di protezionismi, non tutti fallimentari (anzi, dai miracoli economici tedesco e giapponese del dopoguerra, a quelli sudcoreano e taiwanese, fino alla Cina, molte storie di successo furono agevolate da robuste barriere protettive).




















































I dazi cambiano di giorno in giorno: Trump ha seminato incertezza, e questo gli viene rinfacciato con vigore anche a casa sua, dalle grandi imprese, dagli investitori. Negli ultimi giorni sembra essere tornata la versione “tattica” dei dazi, usati come strumento negoziale per ottenere concessioni e contropartite. Ma al di là delle sorprese quotidiane, un dato di fondo è che siamo entrati in un’epoca protezionista. Questo non è accaduto solo a causa e per volontà di Trump (ho ricordato più volte le variegate forme di neoprotezionismo di Biden; per non parlare del campione mondiale Xi Jinping) ma di sicuro l’Amministrazione attuale ha dato una forte spinta in quella direzione.

APPROFONDISCI CON IL PODCAST

Studiare i teorici dei dazi di Trump è un esercizio obbligatorio, anche se si pensa che siano in errore: se non conosci il tuo nemico, come fai a sconfiggerlo? Ho cominciato l’8 aprile a introdurvi uno degli esperti più autorevoli che ispirano il neoprotezionismo Usa, è Oren Cass del think tank American Compass. Eccovi un altro estratto della sua analisi che vi consiglio di seguire con attenzione, fino in fondo. Segue poi un estratto da Michael Pettis, altro economista (esperto di Cina) molto ascoltato dall’entourage trumpiano: sul perché la fuga dal dollaro è un gran bene per l’America, che finalmente si libera dall’onere di gestire l’unica moneta globale.

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Oren Cass scrive:
«Gli economisti contrari ai dazi continuano a basare le loro argomentazioni sulla narrativa, empiricamente smentita, secondo cui il commercio è positivo perché porta a posti di lavoro migliori in un settore manifatturiero più orientato all’esportazione. L’economista Robert Solow scriveva quanto segue, nel sostenere l’integrazione della Cina nel 2000: «La Cina competerà con gli americani sottraendoci alcuni lavori a basso salario. E il suo mercato fornirà lavoro a persone con salari più alti e più qualificate. Ed è un buon affare per noi». Ovviamente, questo non è successo. L’occupazione nel settore manifatturiero degli Stati Uniti ha raggiunto per la prima volta i 17 milioni di posti di lavoro nel 1965, rimanendo poi per 35 anni in un intervallo compreso tra i 17 e i 19 milioni. Nel marzo 2001, il totale è sceso sotto i 17 milioni, e nel marzo 2004 è arrivato a 14 milioni. Nel marzo 2010 era di 11 milioni.
Durante quel periodo, dal 2001 al 2010, le importazioni dalla Cina sono aumentate di oltre 250 miliardi di dollari. Le esportazioni verso la Cina sono aumentate di 70 miliardi di dollari. E non stavamo nemmeno vincendo nella produzione di beni ad alto valore. 

Per quanto riguarda i prodotti tecnologici avanzati, le importazioni da tutto il mondo sono cresciute da 195 miliardi a 354 miliardi di dollari, più del doppio della crescita delle esportazioni statunitensi verso il mondo, passate da 199 miliardi a 273 miliardi. Anche in quel caso, un commercio che un tempo era in equilibrio si è trasformato in un deficit enorme.

L’economia si è evoluta sviluppando una serie di lavori nei servizi ad alto valore, occupati da gruppi completamente diversi di lavoratori, in luoghi geografici diversi, mentre coloro che in precedenza avevano buoni impieghi nella manifattura si sono ritrovati spinti verso lavori nei servizi di qualità molto inferiore. Questa è la scoperta centrale dell’ultima ricerca di David Autor e colleghi, di cui abbiamo parlato nel podcast di American Compass.

Eppure gli economisti continuano a basare le loro argomentazioni su uno scenario roseo e immaginario.

Ecco invece un titolo recente dal Financial Times: «La Cina prende il sopravvento nella corsa ai robot umanoidi rispetto agli Stati Uniti».
Questa è un’illustrazione del motivo per cui produrre cose è importante, e di come ciò che si produce oggi determini ciò che si sarà in grado di produrre domani. Certo, lasciamo pure che la cucitura a basso costo, la piegatura dei metalli e l’assemblaggio vadano all’estero, NOI eccelleremo nelle tecnologie del futuro come la robotica umanoide. E invece no! «Secondo i ricercatori, la profonda catena di approvvigionamento cinese per l’elettronica e i veicoli elettrici ha dato al paese un vantaggio iniziale, con molti dei componenti per i robot umanoidi già prodotti in Cina e inclusi nei veicoli elettrici».

Ti ricordi da dove la Cina ha ottenuto questo vantaggio nelle catene di fornitura per i veicoli elettrici? Tutto è iniziato quando hanno usato *sottovoce* i dazi e altre misure protezionistiche per costringere Tesla a trasferire il suo hub produttivo a Shanghai.
Almeno siamo ancora leader nella produzione di video virali con robot danzanti che si scatenano sulle classiche hit della Motown. Forse questi sono i «lavori meglio pagati e più qualificati» che gli economisti continuano a promettere?

Gli Stati Uniti starebbero meglio senza il dollaro globale.
La maggior parte degli economisti considera lo status del dollaro come valuta di riserva mondiale un «privilegio esorbitante», che consente agli Stati Uniti di indebitarsi a basso costo, consumare più di quanto producano ed esercitare potere finanziario negli affari globali. Io non sono d’accordo e sono stato molto influenzato in questa visione da Pettis». (fine dell’estratto di Oren Cass)

Ed ecco come un altro economista, Arthur Sants, riassume e commenta la posizione di Pettis sul dollaro, approvandone una parte e prendendone le distanze nel finale:

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«La scorsa settimana, il professore di finanza Michael Pettis ha scritto sul Financial Times che gli Stati Uniti starebbero “meglio senza il dollaro globale”. È una versione sintetica del suo libro Trade Wars Are Class Wars, dove l’argomento centrale è che il dollaro statunitense è stato artificialmente sostenuto da governi stranieri. Il risultato, secondo Pettis, è una bolla degli asset negli Stati Uniti e un persistente squilibrio commerciale.

La sua analisi si concentra sulle economie orientate all’esportazione di Cina e Germania. Producono più beni di quanti ne consumino internamente, e questo «eccesso di beni», dice Pettis, deve essere assorbito dai consumatori statunitensi. Questa dinamica è il risultato di scelte politiche deliberate che sopprimono il consumo e promuovono il risparmio nei paesi esportatori. In Cina, ciò avviene attraverso controlli sui depositi presso banche statali e controlli interni sul capitale che convogliano prestiti a basso costo alle imprese. In Germania, l’IVA scoraggia il consumo. E, fino a poco tempo fa, il freno al debito pubblico limitava la spesa interna.
Il risultato è stato un aumento dei tassi di risparmio, con i risparmi in eccesso investiti all’estero – principalmente negli Stati Uniti – facendo salire i prezzi degli asset e rafforzando il dollaro. Questi flussi di capitale sono, secondo Pettis, una delle principali cause dell’elevata valutazione del listino azionario americano S&P 500 e dei bassi costi di indebitamento americani. E, a causa del dollaro forte, i consumatori statunitensi comprano più beni stranieri, il che svuota la base industriale americana e porta a una crescente disuguaglianza della ricchezza.

In parte, questa argomentazione è vera. La Cina incoraggia il risparmio, c’è stato afflusso di capitali negli Stati Uniti e la disuguaglianza è aumentata. Il problema è che Pettis nega qualsiasi protagonismo e libertà di scelta agli investitori. Parla del «fardello» per i consumatori statunitensi che «devono assorbire» i beni in eccesso, e che i tedeschi non hanno dove investire i loro risparmi «in eccesso» se non negli Stati Uniti.

Ma ogni storia ha due facce. L’altra faccia in questo caso è che gli Stati Uniti sono un posto straordinario in cui investire. Sono una democrazia, hanno uno Stato di diritto forte e un’abbondanza di risorse. Inoltre, la cultura americana incoraggia il duro lavoro e l’innovazione, con il risultato che l’America ha creato le aziende più redditizie mai esistite. Se gli stranieri hanno risparmiato per investire in Amazon e Nvidia, non è certo irrazionale. 

I dati lo confermano. Nell’ultimo decennio, il rendimento medio sul capitale delle aziende dell’S&P 500 è del 17%. Le aziende del FTSE 100 e del DAX generano solo l’11%.

Questo uso più efficiente del capitale si riflette nei prezzi azionari. Nell’ultimo decennio, l’S&P 500 è aumentato del 156%, contro il 78% del DAX e solo il 14% del FTSE 100.

Forse si può argomentare che gli indici non riflettano la produttività nazionale, dato che le aziende sono ormai internazionali. Ma i lavoratori statunitensi generano la maggiore produzione per ora lavorata e sono più di sette volte più efficienti di un lavoratore medio cinese».

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19 aprile 2025, 09:49 – modifica il 19 aprile 2025 | 10:46



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