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Verso l’economia di guerra | La Fionda


Il coinvolgimento dell’Unione europea nel conflitto con l’Ucraina è stato il frutto di un rapporto tra Washington e Bruxelles almeno formalmente diverso da quello sviluppatosi negli ultimi tempi. Se l’Amministrazione Biden rimarcava la presenza di solidi legami tra Stati Uniti e Unione europea, Donald Trump discute apertamente di un disimpegno militare degli Stati Uniti nel Vecchio continente.

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In una simile situazione l’Unione europea dovrebbe riconsiderare la sua collocazione nello scenario internazionale. Accade invece il contrario: persevera nel suo sentirsi un progetto atlantista, mira anzi a rilanciarlo attraverso la realizzazione di una difesa europea sostenuti da una vera e propria economia di guerra. Il tutto accompagnato da una ricostruzione dello scenario internazionale attraverso tinte particolarmente fosche, che costituisce il nucleo centrale della retorica su cui si reggono i propositi europei così come sintetizzati nel Libro bianco sulla prontezza alla difesa europea per il 2030 (del 19 marzo 2025, Join/2025/120 final).

Una retorica bellicista

Lo scenario ha evidentemente il suo fulcro nella minaccia rappresentata dalla Russia: avrebbe «chiaramente indicato che nella sua ottica rimarrà comunque in guerra con l’Occidente», motivo per cui, se le «sarà consentito di conseguire i suoi obiettivi in Ucraina, la sua ambizione territoriale si spingerà oltre». Minacciosa è anche la Cina, non solo perché è un Paese «autoritario e non democratico», ma anche perché mira alla supremazia in ambito economico e tecnologico e perché «sta rapidamente ampliando la capacità militari comprese quelle nucleari, spaziali e informatiche». Ma pure il Medio Oriente pone problemi, se non altro per il «legame diretto dell’Iran con la Russia», e lo stesso vale per l’Africa pensando alle sfide che derivano dalle pressioni migratorie, dal terrorismo e dalle conseguenze delle crisi climatiche. Non mancano infine le «crescenti minacce ibride», comprendenti «attacchi informatici, sabotaggio, interferenze elettroniche nei sistemi globali di navigazione e satellitare».

Di qui la conclusione sintetizzata in un celebre motto per cui si vis pacem para bellum, che nel bruxellese utilizzato nel Libro bianco suona così: «l’unico modo per garantire la pace è quello di essere pronti a dissuadere coloro che potrebbero infliggerci un danno». Occorre cioè «una base industriale della difesa più forte e resiliente» con cui «prevenire una potenziale guerra di aggressione», per la quale si richiede «una intensificazione straordinaria e rara degli investimenti europei nel settore della difesa».

Il tutto completato da espedienti volti ad alimentare il coinvolgimento emotivo dei cittadini europei, come quelli messi in campo da Sauli Niinistö, Presidente della Finlandia dal 2012 al 2024, incaricato dalla Commissione europea di confezionare una relazione su come «rafforzare la preparazione e la prontezza civile e militare dell’Europa» (Safer Together. Strengthening Europe’s Civilian and Military Preparedness and Readiness). Lì ci si interroga su come fronteggiare le «nuova realtà»: quella determinatasi per effetto della recente crisi pandemica, della crisi climatica e soprattutto dello scoppio del «conflitto più sanguinario su suolo europeo dallo scoppio della seconda guerra mondiale». E si afferma che il modo migliore di farlo consiste nel «mettere i cittadini nelle condizioni di assumere un ruolo attivo» e più in generale nel rendere partecipe in chiave neocorporativa «la società nel suo complesso»: la «preparazione alle crisi e la prima risposta» devono coinvolgere «non solo le autorità pubbliche a tutti i livelli, ma anche i soggetti privati, i lavoratori e i sindacati, le organizzazione della società civile e i singoli cittadini». Il tutto avallato dal Parlamento europeo, che salauta la circostanza per cui la Relazione Niinistö estende all’Europa unita il «concetto finlandese di difesa totale» (Risoluzione del 12 marzo 2025).

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Sono così gettate le basi materiali e per così dire spirituali per lo sviluppo di una vera e propria economia di guerra, ovvero una economia pensata per alimentare la produzione di materiale bellico con modalità inconsuete dal punto di vista neoliberale. Inconsuete ma non irrituali, dal momento che il neoliberalismo costituisce una teoria e una pratica volta a rendere il capitalismo storicamente possibile, e che questo ben può implicare il ricorso a misure eccezionali se ritenute utili allo scopo. Con la differenza fondamentale rispetto a un approccio keynesiano all’ordine economico che quest’ultimo implica un’equa redistribuzione dei relativi oneri, mentre l’approccio neoliberale mira a realizzare forme di socializzazione delle perdite senza intaccare la privatizzazione dei profitti.

Domanda e offerta di munizioni e missili

Il provvedimento che ha inaugurato l’economia di guerra è stato il Regolamento Asap «sul sostegno della produzione di munizioni» (del 20 luglio 2023 n. 1525). Si occupa dell’offerta di armamenti, ovvero di assicurare sovvenzioni e prestiti all’industria della difesa in ragione di una sua peculiarità: «non effettua ingenti investimenti industriali autofinanziati», come avviene con «i modelli commerciali che disciplinano i mercati più tradizionali», bensì «li avvia solo in seguito a ordini vincolanti» di norma provenienti dagli Stati. Di qui l’istituzione di uno specifico fondo per finanziare la produzione di munizioni e missili, unita alla possibilità di distrarre a tal fine risorse stanziate per altre finalità: prime fra tutte quelle dei Fondi di coesione come il Fondo di sviluppo regionale e il Fondo sociale europeo plus.

Riguardano il lato dell’offerta di armamenti anche alcune misure volte a incrementarne e accelerarne la produzione con modalità che a tutti gli effetti introducono l’economia di guerra. Tra queste ve ne sono alcune poi abbandonate, la cui iniziale previsione è comunque indicativa del clima che regnava a Bruxelles già un paio di anni or sono, e che come vedremo è infine prevalso. Si pensi in particolare alla disposizione per cui la produzione di armamenti poteva essere imposta, e assistita da un impianto sanzionatorio, qualora le imprese rifiutino «di accettare e mettere al primo posto un ordine classificato come prioritario». Il tutto mentre si precisava che l’impresa non avrebbe risposto dei «danni verso terzi per eventuali violazioni di obblighi contrattuali» riconducibili all’adempimento dell’obbligo imposto (Proposta di Regolamento del 3 maggio 2023, Com/2023/237 final).

Ciò detto, il Regolamento alimenta comunque l’economia di guerra nel momento in cui stabilisce che, al fine di realizzare «un rapido potenziamento delle capacità di fabbricazione» degli armamenti, «gli impianti di produzione… siano costituiti il più rapidamente possibile». Consente invero di intervenire sugli ostacoli rappresentati dal «diritto dell’Unione in materia di ambiente, salute e sicurezza» e di derogare alle «procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici» attraverso il ricorso «alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara».

Se il Regolamento Asap si è occupato dell’offerta di armamenti, ovvero delle imprese che li producono, un altro di poco successivo ha preso in considerazione la domanda, ovvero le commesse provenienti dagli Stati (Regolamento Edirpa del 18 ottobre 2023 n. 2418). In particolare ha previsto misure per incentivare il ricorso ad appalti comuni nel settore della difesa, nuovamente con particolare riferimento alle munizioni e ai missili.

Un programma per l’industria europea della difesa

I Regolamenti di cui ci siamo appena occupati concernono iniziative di breve durata, concepiti per affrontare l’emergenza determinata dal conflitto ucraino. Ha invece un più lungo respiro la Proposta di Regolamento Edip, con cui si istituisce un programma per l’industria europea della difesa al fine di rendere permanente lo schema varato con i Regolamenti Asap ed Edirpa (Proposta di Regolamento del 5 marzo 2024, Com/2024/150 final). Il tutto per ripristinare la «capacità di produzione della base industriale e tecnologica di difesa europea», da tempo in sofferenza «a causa di decenni di insufficienti investimenti pubblici»: questa situazione ha costretto l’industria militare a «ridurre i tassi di produzione al fine di tenere a galla le linee di produzione e conservare il personale qualificato».

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Queste affermazioni sono imbarazzanti: condannano senza appello la pretesa di intendere i conflitti armati nel solco indicato dalla Carta costituzionale, e in particolare dalla celeberrima indicazione secondo cui «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11). Le stesse affermazioni stigmatizzano poi l’assenza di politiche economiche incentrate sull’investimento pubblico e dunque poco allineate all’ortodossia neoliberale: evidentemente quest’ultima va bene in tutti gli ambiti ma non anche in materia di produzione di armi.

Ma torniamo alla Proposta di Regolamento Edip, per analizzarlo dal punto di vista del suo contributo alla edificazione dell’economia di guerra, per la quale si riprendono alcune previsioni inizialmente previste nel Regolamento Asap.

La Proposta prevede infatti una serie di misure da adottare in caso di «crisi di approvvigionamento»: la situazione in cui vi sono «gravi perturbazioni nella fornitura» o «gravi ostacoli al commercio» di prodotti che «non sono prodotti per la difesa», la cui carenza determina tuttavia «effetti negativi sul funzionamento delle catene di approvvigionamento della difesa dell’Unione». In tal caso il Consiglio può «attivare lo stato di crisi di approvvigionamento», il che autorizza la Commissione, con il «consenso dello Stato membro in cui sono stabilite», a chiedere alle imprese che producono i beni in discorso di fornire «informazioni in merito alle loro potenzialità produttive, alle loro capacità produttive e alle perturbazioni primarie in corso».

Ma non è tutto. In seguito all’attivazione dello stato di crisi e su richiesta dello Stato membro interessato, previa consultazione con lo Stato membro in cui è stabilita, la Commissione può «richiedere a un’impresa di accettare… un ordine classificato come prioritario». L’impresa può declinare l’ordine, ma deve fornire nel merito una «giustificazione dettagliata». A sua volta la Commissione può rigettarla e «obbligare, mediante atti di esecuzione, le imprese interessate ad accettare o a eseguire l’ordine classificato come prioritario, a un prezzo equo e ragionevole». Con la precisazione che l’impresa che accetta o deve accettare un ordine classificato «è sottratta a qualsiasi responsabilità contrattale o extracontrattuale connessa al rispetto» dei relativi obblighi.

Da notare che la proposta di Regolamento Edip tratta in modo separato la «crisi di approvvigionamento connessa alla sicurezza», ovvero concernente «prodotti per la difesa» e non semplicemente rilevanti per la difesa. Anche in questo caso il Consiglio può attivare lo «stato di crisi», e anche in questo caso ciò autorizza la Commissione a richiedere a un’impresa di accettare «richieste classificate come prioritarie». In tal caso con una differenza non di immediata comprensione: «l’operatore economico rimane libero di rifiutarla».

Il Piano ReArm Europe: il debito di guerra

Abbiamo già fatto riferimento al Libro bianco sulla prontezza alla difesa europea per il 2030 per documentare la retorica su cui si fonda la spinta al riarmo. Questa retorica fa da sfondo al piano ReArm Europe (riarmo europeo), nome la cui carica bellicista si è voluto attenuare aggiungendo la dicitura Readiness 2030 (prontezza 2030), elaborato dalla Commissione europea per supportare l’economia di guerra: è questo il nucleo centrale del Libro bianco.

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Rinviano direttamente all’economia di guerra alcune misure concepite per deregolamentare la produzione di armamenti, che costituiranno l’oggetto di una futura proposta della Commissione di cui si mette in luce la filosofia di fondo. Essa dovrà «consentire la rapida concessione di autorizzazioni edilizie e ambientali per progetti» e «garantire la disponibilità e l’usabilità tempestive e legali di tutti i materiali e di altri fattori produttivi necessari nella catena di approvvigionamento industriali nel settore della difesa quale priorità di interesse pubblico». Dovrà inoltre spianare la strada al finanziamento di tutto ciò con misure drastiche, ad esempio rimuovendo «gli ostacoli all’accesso ai finanziamenti, compresi gli investimenti Esg»: gli investimenti con impatto positivo sulla società e l’ambiente, evidentemente concepiti per attirare risorse non certo da destinare al riarmo.

Il nucleo centrale del Libro bianco non concerne però la deregolamentazione, bensì il finanziamento della produzione bellica con modalità che si possono anch’esse ritenere tipiche di una economia di guerra. Se non altro perché muovono dalla considerazione che, sebbene nel 2024 le spese militari abbiano «raggiunto l’importo senza precedenti» di oltre 100 miliardi di Euro, con ciò quasi raddoppiando l’entità dell’anno precedente, l’incremento ritenuto necessario è di molto superiore. Tanto da richiedere il ricorso a cinque diversi «pilastri».

Il primo pilastro contemplato dal Libro bianco è uno strumento con cui mettere a disposizione degli Stati membri 150 miliardi di Euro per appalti comuni, che verranno presi a prestito dai mercati finanziari dalla Commissione e garantiti dal bilancio europeo. Questo provocherà un aumento del debito dei Paesi membri, che evidentemente dovranno restituire le somme ricevute, con la sola magra consolazione che gli interessi saranno più ridotti di quelli che presumibilmente avrebbero dovuto pagare i singoli Stati membri (Proposta di Regolamento Safe del 19 marzo 2025, Com/2025/122 def).

Il secondo pilastro menzionato nel Libro bianco intende far fronte alle conseguenze dell’indebitamento provocato dall’incremento delle spese militari, per il quale viene attivata la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità e crescita: per quelle spese, diversamente da quanto avviene ad esempio per la spesa sociale, non si subiranno le conseguenze altrimenti riconducibili a un deficit eccessivo. Questo avviene sulla scorta di un automatismo per gli importi derivanti dal ricorso allo strumento Safe, ai quali si possono poi aggiungere altri importi sino a un massimo dell’1,5% del prodotto interno lordo. Consentendo così di mobilitare, nell’arco dei quattro anni, sino a 650 miliardi oltre ai 150 già messi in campo con lo strumento Safe (Communicazione del 19 marzo 2025, C/2025/final). Il tutto riferito alle spese militari affrontate fin dal 2021 e per un periodo di quattro anni a partire dal 2025, concluso il quale il Patto di stabilità e crescita tornerà in funzione con tutte le conseguenze del caso: colpendo il debito accumulato per sostenere la spesa in armamenti, per la cui riduzione si evocherà molto probabilmente l’ennesima contrazione della spesa per lo Stato sociale.

Segue: la politica di coesione e la Banca europea degli investimenti

Inizialmente si era pensato di assicurare il funzionamento del piano di riarmo imponendo agli Stati di indebitarsi, ma questa prospettiva è stata infine abbandonata. Ecco allora il senso del terzo pilastro, con il quale si mira a individuare risorse distraendole dalla loro destinazione originale. Il riferimento è ai fondi concepiti per promuovere la coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione, menzionata tra le sue principali finalità (artt. 3 Trattato Ue e 174 ss. Trattato funzionamento Ue): in particolare il Fondo europeo di sviluppo regionale, con cui si appianano le disparità tra regioni europee, il Fondo per una transizione giusta, concepito per sostenere i territori in difficoltà nel perseguire la neutralità climatica e il Fondo di coesione, creato per finanziare progetti con ricadute positive sull’ambiente.

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Come si intuisce, simili finalità appaiono davvero incompatibili con il proposito di produrre armi, ma questo è ciò che si intende ottenere rendendo più flessibile la disciplina dei fondi, ovvero agevolando un loro utilizzo volto a incrementare «le capacità di difesa dell’Unione e la competitività della sua industria della difesa». Il tutto mentre si punta a incrementare a monte la dotazione dei fondi richiamati, destinando loro le risorse non spese nell’ambito del Dispositivo per la ripresa e la resilienza, ovvero le risorse il cui impiego è stato programmato nei diversi Piani nazionali di ripresa e resilienza (Communicazione del 1. aprile 2025, Com/2025/163 final), che come si sa verranno solo in parte spese nei tempi indicati.

Altre risorse potranno poi derivare incrementando i finanziamenti da destinare alla difesa nell’ambito delle attività della Banca europea degli investimenti. È il quarto pilastro contemplato dal Libro bianco, dove si afferma che la Banca «raddoppierà gli investimenti annuali… per finanziare progetti su droni, spazio, cibersicurezza, tecnologie quantistiche, strutture militari e protezione civile». E dove si preannuncia altresì che si modificheranno di conseguenza i criteri di ammissibilità al finanziamento dei progetti, i quali sono pensati per escludere quelli concernenti la produzione di munizioni e armi, quindi di attrezzature o infrastrutture destinate esclusivamente a usi militari. Dal canto suo la Banca ha già rivisto la definizione di progetti a duplice uso al fine di ammettere al finanziamento anche quelli in cui l’uso militare prevale su quello civile. Ha inoltre avviato iniziative volte a incentivare il partenariato tra soggetti pubblici e soggetti privati in materia di difesa.

La mobilitazione del capitale privato

Come si vede, il finanziamento dell’economia di guerra secondo le modalità viste finora si fonda su un ingente indebitamento pubblico a livello nazionale: anche lo strumento Safe, che pure implica un indebitamento comune, concerne risorse che dovranno essere restituite attraverso un impegno diretto o indiretto degli Stati membri. Ovviamente vi sono alternative, come quelle che passano dalla monetizzazione del debito, ovvero la sua sostanziale cancellazione attraverso l’emissione di moneta, che però risulta impossibile allo stato dell’arte: è impedita dal divieto alla Banca centrale europea di acquistare direttamente titoli del debito pubblico (art. 123 Trattato funzionamento Ue).

Se così stanno le cose, non stupisce se il quinto pilastro che il Libro bianco menziona come sostegno all’incremento della spesa militare si occupa di come «mobilitare capitale privato»: obiettivo a cui si sono recentemente dedicati i celeberrimi Rapporti Draghi e Letta, entrambi fondati sul dogma neoliberale per cui lo sviluppo della costruzione europea potrà sempre meno contare su investimenti pubblici, se non altro a causa dei limiti imposti dal Patto di stabilità e crescita, e dovrà pertanto in modo crescente fondarsi su investimenti privati. Il che implica evidentemente un coinvolgimento dei mercati finanziari e a monte la loro capacità di drenare e mettere in circolo il risparmio privato.

Al drenaggio del risparmio privato per finanziare l’economia di guerra è dedicata una recente Comunicazione concernente l’Unione del risparmio e degli investimenti (del 19 marzo 2025, Com/2025/124 final). Questa muove dalla constatazione che l’Europa unita costituisce un «ampio bacino di risparmio», e che pertanto occorrono strumenti attraverso cui incentivare il meccanismo per cui «il sistema finanziario dell’Ue convoglia il risparmio verso investimenti produttivi». Con la precisazione che tra questi rientrano evidentemente gli investimenti nel settore della difesa, e in particolare quelli indispensabili a finanziare «le piccole e medie imprese e soprattutto le imprese innovative». E dal momento che si tratta di investimenti «che le banche non sono sempre pronte a finanziare», l’unica via di uscita è stimolare in modo decisivo «uno sviluppo sostanziale dei mercati finanziari» attraverso stimoli a muoversi in tal senso indirizzati agli investitori al dettaglio: gli investitori non istituzionali.

Sono così gettate le basi per l’economia di guerra, e con ciò un ulteriore passo verso la guerra. Ennesimo riscontro dei danni prodotti da un’Europa unita nata come mercato senza Stato, divenuta poi una moneta senza Stato, che aspira ora ad avere un esercito senza Stato.

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