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La Cina risponde al calo demografico mettendo i robot al centro dell’industria


Tra i viali ordinati del distretto industriale di E-Town, a Pechino, ventuno robot umanoidi si schierano ai blocchi di partenza per una mezza maratona. Non è una trovata pubblicitaria, né una nuova puntata di Black Mirror: è la prima gara al mondo di questo tipo, pensata per mostrare il vantaggio tecnologico della Cina nel campo della robotica. Lungo un percorso parallelo a quello riservato agli atleti umani, i robot si affrontano su ventuno chilometri di strada, ciascuno accompagnato dal suo team di tecnici, programmatori e allenatori. Alcuni indossano scarpe da corsa, altri avanzano goffamente con solo una pettorina addosso, non tutti arrivano in fondo, ma il messaggio è chiaro: la Cina vuole guidare la corsa globale verso l’automazione. E lo fa come sempre con un evento simbolico, nel cuore del suo polo tecnologico.

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Nel bel mezzo della guerra dei dazi scatenata da Trump, la notizia è che la Cina ha ormai industrializzato l’automazione. Come spiega un lungo approfondimento del New York Times, gli stabilimenti nella seconda economia del mondo sono oggi più automatizzati di quelli americani, giapponesi e tedeschi: secondo la International Federation of Robotics, la Cina è il terzo paese al mondo per densità di robot in fabbrica, dietro solo a Corea del Sud e Singapore. Questo salto tecnologico ha permesso a Pechino di mantenere bassi i costi di produzione anche con l’aumento delle tariffe doganali. Un obiettivo strategico per un’economia che ancora oggi fonda una larga parte della sua crescita sulle esportazioni.

Il settore automobilistico è il laboratorio più avanzato di questa rivoluzione. Alla Zeekr, azienda cinese che produce auto elettriche, la trasformazione è visibile a occhio nudo. Lo stabilimento di Ningbo, inaugurato quattro anni fa con cinquecento robot, oggi ne conta ottocentoventi. I robot trasportano lingotti d’alluminio, li fondono, assemblano le scocche e si occupano del controllo qualità attraverso sofisticati sistemi di visione artificiale. Tutto in ambienti automatizzati dove le luci possono restare spente, perché non serve più la presenza umana. I lavoratori non sono scomparsi del tutto, ma si concentrano su compiti dove serve ancora manualità fine, come l’installazione dei cablaggi. Anche queste mansioni, però, sono sempre più sotto osservazione da parte delle macchine.

Non si tratta solo di grandi impianti industriali. L’automazione è arrivata anche nelle officine di quartiere. A Guangzhou, Elon Li ha deciso di investire in un braccio robotico da quarantamila dollari capace di replicare autonomamente le saldature dei suoi operai. Quattro anni fa, una macchina simile costava quasi centoqurantamila dollari ed era fornita da aziende estere. Oggi le stesse tecnologie sono prodotte in Cina, a costi più bassi e con prestazioni elevate. «Un operaio lavora otto ore al giorno, una macchina può lavorare ventiquattro», dice Li al New York Times. La differenza è enorme. E il cambiamento forse irreversibile.

Questa rivoluzione ha radici profonde. Il piano Made in China 2025, lanciato dal governo un decennio fa, ha messo la robotica al centro dello sviluppo industriale. Le imprese sono state incentivate ad automatizzare, le università hanno ampliato i corsi in ingegneria meccanica — oggi i laureati in Cina sono circa trecentocinquantamila all’anno, contro i quarantacinquemila statunitensi — e i finanziamenti pubblici sono stati enormi. Le banche statali hanno erogato quasi duemila miliardi di dollari in prestiti alle imprese per ammodernare macchinari e costruire nuovi impianti. Nel frattempo, Pechino ha spinto le aziende a testare anche robot umanoidi, imponendo loro di usarli e di documentarne le prestazioni.

Il risultato è che oggi anche l’immagine pubblica dell’innovazione è cambiata. La mezza maratona dei robot è stata organizzata come una gara di Formula Uno, con “scuderie” provenienti da aziende cinesi come Unitree Robotics, Engineairobot, Noetix Robotics e DroidVP. Ogni macchina ha un suo stile, alcune sembrano maschili, altre femminili, qualcuna ha perfino una personalità programmata. Per la soddisfazione dei luddisti, solo sei robot hanno terminato i ventuno chilometri. Il vincitore, Tiangong Ultra, ha impiegato due ore e quaranta minuti. Ma non era la velocità il punto. Era la dimostrazione che la Cina è pronta a guidare anche questa corsa: quella per la supremazia nell’intelligenza artificiale applicata all’industria.

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Intanto, però, cresce la preoccupazione tra i lavoratori. Geng Yuanjie, addetto alla logistica alla Zeekr, racconta di un ambiente sempre più silenzioso. «Ci sono meno colleghi rispetto a prima. E se un giorno dovessero sostituire anche me con un robot?», si chiede. Con solo un diploma, non ha accesso ai corsi per programmatori o tecnici specializzati. E sa di non essere l’unico a vivere questa incertezza. «È un pensiero comune tra noi operai», dice. Il problema è che, in un paese dove i sindacati non sono indipendenti e le proteste sono vietate, il malessere non trova sfogo.

A tutto questo si aggiunge una crisi demografica. La Cina fa meno figli e ha sempre più giovani che studiano all’università e non vogliono lavorare in fabbrica. Come spiega Stephen Dyer, consulente della società AlixPartners, «la Cina ha perso il suo vantaggio demografico. Ora si trova con un calo della forza lavoro, e l’unica soluzione è aumentare la produttività». È per questo che l’automazione non è solo una scelta industriale, ma una necessità strutturale. Il robot non è più un supporto, ma una risposta a un problema sistemico.



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