Mercoledì 16 aprile si è svolta l’audizione presso le Commissioni congiunte bilancio del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati nell’ambito dell’esame del Documento di finanza pubblica 2025. Hanno partecipato per la CGIL Christian Ferrari, Segretario confederale CGIL, Nicolò Giangrande, Responsabile Ufficio Economia CGIL, e Massimo Brancato, Coordinatore Area Politiche per lo sviluppo.
La memoria è stata predisposta con il contributo delle Aree del Centro confederale.
PREMESSA
Il Documento di finanza pubblica (DFP) 2025 manca completamente del quadro programmatico, e questo è a dir poco preoccupante. Di fronte agli stravolgimenti in corso sullo scenario internazionale, rischiamo di procedere senza idee e senza bussola.
Per quanto riguarda invece il quadro tendenziale, il DFP certifica – di fatto – il fallimento delle politiche economiche del governo.
Ad appena sei mesi dalla presentazione del Piano strutturale di bilancio, viene – infatti – dimezzata la previsione di crescita del 2025 (dall’1,2% allo 0,6%) e significativamente ridotta quella del 2026 (dall’1,1% allo 0,8%).
Oltretutto, questa revisione non tiene in considerazione la guerra commerciale scatenata dall’Amministrazione americana, che potrebbe ridurre ulteriormente il Pil, con il rischio che l’Italia precipiti in una vera e propria recessione.
È l’ennesima conferma che la crescita “allo zero virgola” è principalmente il risultato delle scelte dell’Esecutivo che avevamo contestato sia in occasione del Psb, che durante la discussione sulla Manovra di Bilancio.
Nel farlo, avevamo sottolineato come fosse lo stesso Governo a prevedere un impatto sul Pil delle sue politiche economiche di appena 0,4 punti percentuali fino al 2027.
Ma le cose sono andate persino peggio: non solo la Legge di Bilancio non produrrà i pochi effetti sperati, ma si perderanno addirittura – tra quest’anno e il 2027 – 0,9 punti percentuali di Pil reale.
In sintesi: è stata appena approvata una manovra di circa 30 miliardi, e già si certifica la perdita cumulata – rispetto alle previsioni – di oltre 31 miliardi di Prodotto interno lordo nominale tra il 2025 e il 2027 (vedi tabella a pag.3).
Siamo solo all’ultima tappa di un percorso cominciato nell’aprile del 2024, quando il Governo – con una decisione a dir poco autolesionistica – avvallò la nuova governance economica europea, da cui è derivato un Piano strutturale di bilancio che ha impostato – per il nostro Paese – un lungo ciclo di “austerità selettiva”.
Selettiva sia se consideriamo chi la sta subendo e continuerà a subirla: in primis lavoratori e pensionati, già duramente colpiti da un’inflazione da profitti che – in termini cumulati – ha raggiunto il 18,6% nel quadriennio 21/24; sia se consideriamo i settori più colpiti dai tagli decisi per rispettare i nuovi parametri: Pubblico impiego, Istruzione, Regioni ed Enti locali (i cui effetti sui contribuenti misureremo nelle prossime ore, quando sarà completo il quadro delle addizionali); con il finanziamento del Servizio sanitario nazionale che raggiungerà – nel 2027 – un livello tra i più bassi di sempre.
Per non parlare, poi, del capitolo previdenziale, con la scomparsa dall’orizzonte di qualunque tentativo non tanto di superare, ma almeno di mitigare la legge Monti – Fornero.
C’è un unico settore che, non solo non subirà alcuna austerità, ma che vedrà – in base a quanto previsto in Legge di Bilancio – un incremento delle risorse senza precedenti: è la spesa per la difesa, con circa 35 miliardi di euro aggiuntivi da qui al 2039.
E adesso le cose rischiano di precipitare ancor di più alla luce del piano “Rearm europe – Readiness 2030”, che prevede la possibilità di richiedere l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità, per autorizzare i singoli paesi a indebitarsi oltre i vincoli vigenti, al fine di finanziare spese aggiuntive per la difesa fino al 1,5% del Pil per 4 anni.
Era una precisa richiesta del Governo italiano, che – purtroppo – è stato accontentato e che ora si trova nella condizione di dover scegliere se attivarla o meno.
Sembra invece già certo un ulteriore incremento delle spese militari finalizzato a raggiungere il 2% del Pil.
Scelta che la Presidente del Consiglio (a quanto pare) intende annunciare nell’incontro di domani con il presidente Trump, e portare “in dote” al prossimo summit Nato di giugno.
In proposito, non possiamo che ribadire la nostra ferma contrarietà: a questa pericolosissima corsa al riarmo; e alla conversione, dell’economia italiana e di quella europea, in un’economia di guerra.
Alla luce dei dati di fatto sopra elencati – e soprattutto di quanto sta accadendo a livello internazionale – è evidente l’urgenza di cambiare passo, anzi di invertire la marcia.
Occorre recuperare risorse da profitti ed extra-profitti, rendite e grandi patrimoni, evasione fiscale e contributiva, una maggiore progressività ed equità fiscale.
Una strada consentita anche dalla nuova governance economica europea come alternativa ai tagli alla spesa pubblica, ma che il Governo si è ben guardato dall’imboccare.
Solo così si può rafforzare il welfare pubblico e universalistico e finanziare investimenti e politiche industriali in grado di: affrontare la transizione digitale, energetica ed ecologica; rilanciare il nostro sistema produttivo; evitare qualsiasi delocalizzazione oltre Atlantico.
Occorre modificare il piano di riforme e investimenti del Psb, vista la sua scarsa incisività sulla crescita economica nazionale, inserendo riforme con un maggior impatto in termini macroeconomici: una legge sulla rappresentanza e sul salario minimo per rafforzare la contrattazione collettiva e aumentare i salari; una legislazione del lavoro per contrastare la precarietà, il lavoro nero e sommerso.
Occorre sostenere il potere d’acquisto dei redditi fissi, cosa non avvenuta con la fiscalizzazione del cuneo contributivo, che ha penalizzato la stragrande maggioranza del mondo del lavoro dipendente fino a 35.000 euro.
E a questo proposito, rinnoviamo la richiesta al Governo di rimediare alla clamorosa ingiustizia che stanno subendo i redditi tra 8.500 e 9.000 euro annui, che – in assenza di interventi – perderanno 1.200 euro all’anno; così come chiediamo l’intervento urgente sugli acconti Irpef, che vanno calcolati sulla base delle tre aliquote introdotte dalla riforma.
Non va poi dimenticato che l’intera “operazione cuneo” è stata finanziata da chi vive di salario e di pensione, che ha pagato – a causa del drenaggio fiscale – un extra gettito Irpef di circa 18 miliardi di euro, contribuendo – in maniera determinante – ad assicurare i saldi di finanza pubblica nonostante la flessione del Pil; mentre a tutti gli altri si garantiscono flat tax, condoni, sanatorie e concordati preventivi.
Occorre rinnovare i Ccnl pubblici, consentendo a lavoratrici e lavoratori di recuperare almeno l’inflazione cumulata negli anni scorsi, e favorire il rinnovo di quelli privati.
Occorre infine recuperare i gravissimi ritardi maturati sulla messa a terra del PNRR, senza stravolgerne gli obbiettivi, come invece lascia intendere l’intenzione della Presidente del Consiglio di “saccheggiare” – ancora una volta – il Piano e i Fondi di coesione per regalare altre decine di miliardi alle imprese, senza condizionalità, senza alcuna strategia, e oltretutto sottraendoli ai soggetti e ai territori più deboli, a partire dal Mezzogiorno verso il quale latita una vera politica di sviluppo.
Non è questa la via per guarire dalla crescita anemica e per evitare il baratro della recessione che – senza rilanciare la domanda interna, a partire dai salari – diventerà un rischio sempre più concreto.
Tabella 1 – Differenze del Pil reale e nominale (variazione percentuale, punti percentuali, milioni di euro) tra il Documento di finanza pubblica (DFP) e il Piano Strutturale di Bilancio (PSB) nel triennio 2025-27
Per ulteriori approfondimenti:
→ Memoria audizione CGIL esame del Piano strutturale di bilancio di medio termine – 3 ottobre 2024
→ Nota di commento Cgil relativa alla Legge di Bilancio per l’anno 2025 (Legge 30 dicembre 2024, n. 207)
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