La gestione di un’impresa è anzitutto gestione delle persone. Di chi ci lavora, di chi mette a disposizione know how, competenze e tempo, la risorsa scarsa per eccellenza. Per questo, anche in tempi di guerre commerciali, torna utile l’indagine dal titolo “European workforce study 2025”, curata da Great place to work, una società presente in oltre sessanta Paesi che aiuta le aziende a migliorare le proprie performance di business.
Dalle interviste condotte su 25mila collaboratori di diciannove Paesi europei, emerge che l’Italia è il posto peggiore per capacità di trattenere i lavoratori. Dai dati risulta che il 40 percento dei dipendenti su scala nazionale ha dichiarato di voler cambiare impiego, contro una media europea del 31 percento; il picco si registra nelle fasce più giovani, tra i 18 e i 24 anni. Stipendi fermi e scarsa formazione sono tra le cause principali dell’insofferenza dei lavoratori, inclini perciò a guardarsi attorno in cerca di un impiego migliore.
Ci interroghiamo su che cosa decideranno i Grandi del mondo, sulle sortite imprevedibili di Trump e sui solenni proclami di Xi a favore del free trade, con l’Europa che tenta di ritagliarsi un ruolo (in proposito, è rilevante l’incontro di oggi, a Washington, tra il presidente statunitense e la premier Giorgia Meloni), e tuttavia perdiamo di vista il nucleo primordiale di un’azienda. Le persone, il rapporto tra top manager e dipendenti, la necessità di dialogo ed empatia per creare un ambiente di lavoro favorevole alla crescita delle persone e ad assicurare un sano equilibrio tra impegno professionale e vita privata.
Ad essere più a disagio nell’ecosistema aziendale italiano sembrano i giovani, quelli della generazione Z, meno inclini al sacrificio, più attenti alla qualità della vita e forse pure meno ambiziosi rispetto a noi millennial e, ancor di più, ai boomer.
Per noi che abbiamo inteso l’ambizione come il vero driver della realizzazione professionale, commisurata in gratificazione salariale e progressione di carriera, appare certamente spiazzante la tendenza dei giovanissimi ad attribuire, nella selezione di un impiego, un valore primario alla possibilità di gestire in modo flessibile l’orario di lavoro, di preservare il proprio benessere psicofisico, di ricorrere allo smart working, di avere garanzie sul tempo da dedicare esclusivamente a se stessi. Il “me time”, come dicono gli inglesi, è un parametro fondamentale per un giovanissimo che si affaccia al mondo del lavoro.
Non so se questo sia un bene o un male, so che serve molto sacrificio per arrivare da qualche parte, servono fatica e dedizione, e almeno nelle prime fasi di carriera, quando si fa la cosiddetta “gavetta”, può capitare di sacrificare il weekend per non mancare una scadenza importante.
E tuttavia la ricerca, condotta da Great place to work, è preziosa perché fornisce lo spaccato di una realtà lavorativa di cui l’Italia non può andare fiera. Se i manager non sanno fidelizzare i dipendenti, se non sanno valorizzarli per tenerli a bordo, esiste un problema che nessuna legge o decreto può risolvere.
Non esistono team eterni ma le squadre che cambiano incessantemente impediscono di far sviluppare le skills specifiche in un determinato settore. Il fenomeno con cui sempre di più dobbiamo fare i conti, sopratutto in Italia, è il cosiddetto “quiet quitting”: i dipendenti insoddisfatti rimangono al loro posto, nonostante siano infelici, riducendo l’impegno nelle mansioni a loro assegnate.
Insomma, si resta ufficialmente a bordo, a parità di salario, ma nei fatti si combina assai poco. Secondo la survey già citata, è un fenomeno molto diffuso nel nostro Paese dove c’è un basso turnover, il risultato è che i quiet quitters – chi rimane malvolentieri – alimentano la negatività all’interno di un’azienda, oltre a ridurne la produttività.
Per risolvere questi problemi, è necessario parlarsi, ritagliarsi il tempo di ascoltare i propri collaboratori, raccogliere i loro feedback sulla work experience e sullo staff engagement, con una giusta dose di flessibilità che consenta di modificare i comportamenti o gli assetti organizzativi all’origine dell’insoddisfazione del dipendente. È un gran lavoro ma fa parte del bagaglio di un buon manager. Lo stipendio è molto ma non è tutto nella vita di ogni giorno.
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