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Come il cuneo fiscale limita salari, imprese e futuro in Italia


Il cuneo fiscale e contributivo in Italia

Il concetto chiave per comprendere la dinamica salariale italiana è il cuneo fiscale e contributivo, ovvero la differenza tra il costo del lavoro sostenuto dal datore di lavoro e il salario netto percepito dal lavoratore. In Italia, questa forbice è tra le più ampie dei Paesi industrializzati.

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Secondo l’OCSE, nel 2023 il cuneo fiscale in Italia si attestava al 45,9% per un lavoratore single senza figli, a fronte di una media OCSE del 34,6%.

Questo significa che quasi la metà del costo del lavoro viene assorbita da tasse e contributi, lasciando al lavoratore una retribuzione netta molto più bassa di quanto l’impresa effettivamente spende per mantenerlo in organico.

Di seguito un esempio pratico per comprenderne la dinamica:

  • Un lavoratore con un netto mensile di 1.600 euro ha un lordo di circa 2.400 euro.
  • Il datore di lavoro, però, sostiene un costo totale di circa 3.000 euro, includendo contributi INPS, INAIL e altri oneri connessi al rapporto di lavoro.

L’effetto del cuneo fiscale sulla dinamica salariale

Questo significa che il 47% di ciò che l’azienda paga non finisce nelle tasche del dipendente, ma viene intercettato da imposte e contributi obbligatori.

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Con un cuneo fiscale così elevato, ogni aumento salariale richiesto dai dipendenti si trasforma in un aggravio economico che va ben oltre il semplice incremento lordo.

Un aumento di 100 euro netti in busta paga può comportare fino a 180-200 euro di spesa aggiuntiva per il datore di lavoro.

In un contesto economico segnato da incertezza, margini di profitto ridotti e concorrenza globale, questa rigidità è un deterrente evidente.

Il sistema italiano è inoltre fortemente sbilanciato su una struttura produttiva composta per oltre il 90% da micro e piccole imprese, che operano con risorse limitate e una marginalità molto bassa.

In queste condizioni, l’aumento salariale diventa un lusso insostenibile, anche quando le imprese riconoscono che i propri dipendenti sono sottopagati.

Cuneo fiscale: Il confronto con gli altri Paesi europei

Dal confronto con le principali economie europee, emerge un quadro poco favorevole per il nostro paese.

Secondo i dati OCSE 2023, il cuneo fiscale per un lavoratore single senza figli è del 47,9% in Germania, del 46,8% in Francia e del 39% in Spagna, risultati non lontani dalle percentuali emerse in Italia che, come detto in precedenza, si attestano sul 45,9%.

Tuttavia, nonostante un peso fiscale simile a quello francese e tedesco, i salari lordi e netti italiani restano tra i più bassi. In particolare, il salario lordo medio annuo in Italia è di circa 29.000, contro 55.000 della Germania, 41.000 della Francia e 23.000 della Spagna.

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Retribuzioni basse e assenza di salario minimo

Il dato del netto annuo medio percepito è ancora più penalizzante: € 24.000 in Italia, contro € 38.000 in Germania e € 31.000 in Francia. Solo la Spagna, con circa € 22.000 netti, si colloca al di sotto.

Anche sul fronte del salario minimo legale, l’Italia resta un’eccezione. Essa, infatti, è l’unico Paese tra i grandi dell’Eurozona a non averlo introdotto, affidandosi esclusivamente ai minimi contrattuali dei CCNL.

In Francia e Germania, invece, lo SMIC e il Mindestlohn sono cresciuti costantemente negli ultimi anni, supportati da meccanismi di decontribuzione per le imprese.

In sintesi, mentre gli altri Paesi europei menzionati compensano il cuneo fiscale con salari superiori o incentivi mirati, in Italia il costo del lavoro resta alto senza tradursi in una retribuzione adeguata, con un effetto deprimente sia sul potere d’acquisto sia sulla competitività del sistema produttivo.

Implicazioni economiche e sociali

Impatto sul potere d’acquisto

L’elevato cuneo fiscale e contributivo riduce il netto in busta paga, influenzando negativamente il potere d’acquisto dei lavoratori. Questo fenomeno è particolarmente accentuato nelle regioni meridionali, dove i salari sono più bassi e il costo della vita è in aumento.

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Effetti sulla competitività delle imprese

Le imprese italiane, gravate da un costo del lavoro tra i più alti in Europa, subiscono una duplice penalizzazione.

Da un lato, l’elevata imposizione fiscale e contributiva limita le possibilità di retribuire adeguatamente i dipendenti, rendendo difficile trattenere personale qualificato e motivato.

Dall’altro, le imprese faticano a competere sui mercati internazionali dove gli stessi costi sono più contenuti e la produttività è mediamente superiore.

Questo ha effetti particolarmente visibili nelle piccole e medie imprese (PMI), che costituiscono oltre il 95% del tessuto produttivo italiano.

Le PMI operano con margini molto più ridotti rispetto alle grandi aziende e non dispongono degli strumenti finanziari e organizzativi per assorbire l’aumento del costo del lavoro, né per sviluppare modelli retributivi premianti legati alla performance.

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Erosione del potere retributivo e mobilità lavorativa

Una delle conseguenze più gravi dell’elevato costo del lavoro è la crescente inadeguatezza delle retribuzioni rispetto al costo della vita.

Nel periodo 1990–2020, i salari reali italiani (corretti per inflazione) sono diminuiti, secondo le rilevazioni OCSE — un dato pressoché unico tra le economie avanzate.

In confronto, nello stesso arco di tempo, i salari reali in Germania sono aumentati di oltre il 30%.

Questa erosione salariale ha prodotto due effetti strutturali:

  • Crescita del numero di working poor: lavoratori con impiego regolare ma con reddito insufficiente a garantire un tenore di vita dignitoso. Secondo Eurostat, l’Italia è tra i Paesi con la più alta percentuale di working poor in Europa occidentale.
  • Fuga di capitale umano: giovani laureati e lavoratori specializzati emigrano verso Paesi in cui la retribuzione è proporzionale alla produttività e dove il carico fiscale sul lavoro è meno opprimente. Il cosiddetto brain drain italiano è il più consistente dell’UE in termini assoluti.

La radice del problema

La stagnazione dei salari in Italia non è il prodotto della sola crisi economica, né può essere spiegata esclusivamente con dinamiche di mercato del lavoro globalizzate.

Essa è il risultato di una struttura fiscale e contributiva distorta, che grava in modo sproporzionato sul costo del lavoro, in particolare per i datori.

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Le imprese, soprattutto le piccole, non riescono a sostenere aumenti salariali perché ogni euro in più concesso al dipendente si traduce in un aumento di oltre il 40% sul costo aziendale.

Questo squilibrio produce effetti a catena:

  • blocca la dinamica retributiva;
  • incentiva il lavoro precario o sommerso;
  • spinge i lavoratori più qualificati a cercare opportunità all’estero;
  • limita la crescita della domanda interna, deprimendo i consumi;
  • ostacola l’innovazione e l’aumento della produttività.

In sintesi, il costo del lavoro troppo alto è il vero freno alla crescita salariale in Italia. Finché non si interverrà su questa leva, ogni dibattito sui salari resterà confinato nel limbo delle buone intenzioni.

E lavorare in Italia continuerà a essere, per troppi, un’attività necessaria ma economicamente insoddisfacente.



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