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Il leader degli industriali veneti Boscaini: « Serve più coraggio. Meno vincoli per le imprese»


«Siamo in una fase in cui non basta più un posto di lavoro: serve anche un posto dove vivere bene. E il Veneto, se vuole trattenere giovani e attrarre talenti, deve mettersi in gioco su questo piano».

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A poche settimane dalla sua nomina al vertice di Confindustria Veneto, avvenuta il 24 febbraio, Raffaele Boscaini, presidente di Confindustria Veneto ha accettato di partecipare a un forum con il direttore Luca Ubaldeschi e con la redazione dei quotidiani del gruppo Nord Est Multimedia, per tracciare un primo orizzonte del suo mandato quadriennale. L’imprenditore veronese di Masi Agricola è arrivato al vertice nel momento in cui il Pil rallenta, l’industria ha il fiato corto, il quadro geopolitico si complica e la politica regionale si prepara alla fine del lungo ciclo di Zaia.

Il forum in redazione

Presidente, ha assunto la guida di Confindustria Veneto in un momento congiunturale tra i più delicati degli ultimi anni: il Documento di economia e finanza ha ridotto le stime di crescita, la produzione industriale è in flessione costante da mesi e lo scenario internazionale è segnato da instabilità e tensioni. Qual è la sua lettura di questo momento?

«Sì, è proprio adesso che servono le associazioni. Quando tutto va bene, nessuno ci fa caso. Ma nei momenti di difficoltà c’è bisogno di presenza, di coesione, di uno sguardo comune. Il contesto è oggettivamente complesso. Lo dico con franchezza: siamo in un momento critico. Anche chi mi ha preceduto ha avuto a che fare con periodi difficili – pensiamo alla pandemia – ma ora siamo davanti a un’altra fase complicata. Il punto è che dobbiamo mantenere i piedi ben piantati a terra e guardare in faccia la realtà, senza rinunciare alla progettualità. Serve credere in ciò che facciamo, essere pronti ad adattarci, ma non a rinunciare. Le imprese solide, ben strutturate, sono quelle che resistono anche alle tempeste più violente. E per essere solide, devono avere filiere agili, presenti ovunque, tanto negli approvvigionamenti quanto nella distribuzione. Ci sono principi economici validi in ogni epoca. Se un’azienda funziona bene può anche subire un contraccolpo, ma non crolla».

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In questo contesto di profonda incertezza globale, in cui le dichiarazioni, contraddittorie, di un leader politico possono generare reazioni sui mercati, è ancora possibile per le imprese programmare? O l’instabilità ha ormai reso impossibile ogni pianificazione?

«Ogni uscita diventa un tornado. Il quadriennio che si apre con Trump potrebbe essere ancora più destabilizzante del primo. Siamo passati da dazi allo 0% al 20%, poi al 10%, nel giro di 90 giorni… Non c’è coerenza. Penso che questo tipo di strategia finirà per consumarsi da sola. Anche all’interno dello stesso staff trumpiano iniziano a esserci malumori, perché ogni azione scatena reazioni violente: sul dollaro, sulle Borse, sull’economia globale. E queste reazioni, prima o poi, si ritorcono anche contro gli Stati Uniti stessi. Il problema è che oggi ogni movimento genera un’onda immediata. Una volta, si temeva che il ritorno di Trump fosse un rischio soprattutto per le parole forti. Stavolta, invece, le azioni sembrano essere ancora più impattanti. Si avverte un disallineamento totale. Il punto è che se l’Europa si divide, lui vince. Se l’Europa resta unita, può negoziare da pari a pari».

Boscaini al forum con i quotidiani veneti di Nord Est Multimedia: le aziende venete alle prese col cambiamento

La produzione industriale italiana è in calo da due anni. Intanto, gli incentivi della transizione 5.0 restano inutilizzati. Cos’è che non ha funzionato?

«È una misura difficile da utilizzare, schiacciata dalla burocrazia e da un sistema di garanzie che scoraggia chiunque. C’è troppa complessità. E questo è un tema strutturale. Il nostro è un Paese che soffre per il costo dell’energia, per la scarsità di investimenti, e quando quegli investimenti arrivano, sono quasi inutilizzabili a causa della burocrazia. Il nostro presidente Emanuele Orsini ha parlato di “dazi interni” – e l’immagine è perfetta. Anche un’impresa ben organizzata, se deve combattere ogni giorno con carte e moduli, alla lunga si logora. È come un’auto con l’olio vecchio e il filtro dell’aria intasato: forse arriva a Roma, ma consumando di più e facendo molta più fatica».

Serve rivedere i meccanismi della transizione 5.0 o è meglio voltare pagina?

«Sono tecnicismi complessi, ma una cosa è chiara: la 4.0 funzionava. Bastava copiare quel modello. La 5.0 è ancora più complessa. Forse sarebbe meglio aprire un capitolo nuovo, con misure più semplici e dirette».

Anche la Regione Veneto ha tentato una mossa in chiave attrattività, varando una legge per incentivare gli investimenti. Ma le risorse messe a disposizione – circa 47 milioni – sembrano esigue rispetto alla scala degli investimenti internazionali. Non crede?

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«Meglio poco che niente, almeno c’è un disegno. Certo, per competere a livello globale servono cifre più ambiziose. Ma non è solo una questione di soldi: se vuoi attrarre una multinazionale, devi avere anche infrastrutture, servizi, case per le persone. Oggi non abbiamo case per i manager, per i tecnici, nemmeno per i giovani. Il problema abitativo è diventato un freno allo sviluppo».

Molti giovani lasciano il territorio, attratti da metropoli come Milano o da esperienze all’estero. Confindustria può avere un ruolo nel contrastare questo esodo?

«Lavorare su progetti concreti. Per esempio mettere insieme imprese edili, studenti, lavoratori, e riqualificare il patrimonio edilizio abbandonato. Le nostre città sono piene di vuoti urbani. Con un po’ di visione e strumenti flessibili, possiamo creare nuove forme di accoglienza».

Ma la fuga dei giovani è legata anche alle retribuzioni, spesso troppo basse rispetto ad altri contesti europei. È un tema che Confindustria può contribuire ad affrontare?

«Se un’azienda è solida e competitiva, può anche permettersi di pagare meglio. Ma serve fluidità, meno burocrazia, meno vincoli. Detassare i neoassunti sarebbe un’ottima misura. Le grandi imprese già lo fanno, offrono casa, mobilità, servizi. Le multinazionali portano contaminazione positiva anche alle realtà locali».

C’è un progetto di Confindustria per favorire l’edilizia destinata ai lavoratori. Il Veneto potrebbe essere capofila?

«È già partito proprio da qui: un accordo tra la Regione e una nostra territoriale è stato il punto di partenza. L’obiettivo è replicarlo altrove».

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Molte aziende mantengono la produzione qui ma stanno spostando molte funzioni verso Milano: questo allontana ancora di più i giovani dal territorio?

«È un altro nodo importante, soprattutto per quei giovani che cercano posizioni manageriali di un certo livello. È anche una questione, di modello del nostro Nord Est, che mostra alcune fragilità. È un sistema cresciuto in fretta, molto bene, ma che oggi si trova davanti a un passaggio di maturità che fatica a compiere. E questo lo si vede anche nella struttura delle aziende stesse, nella finanza, che spesso resta alla porta».

Quando parla di finanza, si riferisce anche all’apertura del capitale?

«Sì, assolutamente. Perché questo comporta una serie di cose che, secondo me, sono positive. Le porto un esempio personale: la mia azienda è quotata da dieci anni, con una piccola parte di flottante. Ma questo ci ha portato dentro casa una professionalità, un rigore e una determinazione negli avviamenti che sono assolutamente salutari. E sottolineo: salutari. Siamo un’azienda con una famiglia anche numerosa, ma è tutto molto chiaro, a libro aperto, senza nessun dubbio sul futuro dell’impresa. E di conseguenza anche la famiglia sta bene.»

Banco Bpm e UniCredit due istituti bancari che hanno origini veronesi sono al centro di un possibile riassetto che potrebbe cambiare l’equilibrio del credito sul territorio. Le imprese sono preoccupate?

«Ci preoccupa la possibile restrizione del credito. Molte imprese sono esposte su entrambi i fronti. Se da due diventano una, rischiano di trovarsi con meno accesso al credito. Serve un presidio attento, anche da parte nostra».

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Il tema delle infrastrutture è cruciale per attrattività e competitività. Ma il Veneto sconta ritardi strutturali. Quali sono le priorità?

«Abbiamo lanciato una nuova edizione del nostro OTI, l’osservatorio sulle infrastrutture. Le opere si stanno facendo, ma a ondate. C’è una grande assente: il tunnel del Brennero. Nessuno ne parla, ma cambierà tutto. Servono interporti, collegamenti, strutture di base. Se no, quando arriveranno i treni da un chilometro e mezzo non sapremo dove metterli. E poi ci sono le vie d’acqua, i porti, Verona, Mantova, Venezia, Trieste: tutto deve dialogare».

Perché secondo lei il progetto Milano-Cortina non scalda più di tanto gli animi nel territorio?

«Forse perché dà l’impressione di essere una cosa da multinazionali, come la Coca-Cola, con miliardi in campo e dinamiche un po’ distanti. Eppure dovrebbe coinvolgerci di più: lascia infrastrutture, ma anche – speriamo – una buona reputation e un’immagine positiva dei nostri territori. Il fatto che sia “Milano-Cortina”, quindi con una geografia molto allargata, contribuisce a “deresponsabilizzare” gli attori dei singoli territori. È come se se ne dovesse occupare qualcun altro».

Ci sono comunque infrastrutture in corso che potrebbero rappresentare un’eredità concreta per il territorio?

«Sì, quando i progetti sono pensati con lungimiranza, funzionano. Penso alla variante di Longarone: non sarà pronta per l’evento, ma ci stanno lavorando ed è comunque un’opera utile. Lo stesso vale per altri interventi. Cortina, per esempio, la conosco da anni: oggi è evidente il cambiamento che sta vivendo, c’è un movimento, un’energia nuova».

Si è chiuso un lungo ciclo politico in Veneto con la fine del mandato di Luca Zaia. Qual è il suo bilancio?

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«Parlo da osservatore, nonostante il mio ruolo. Da cittadino e da presidente di Verona l’ho seguito sempre da vicino. È stata un’amministrazione lunga, ma proprio questa durata ha permesso di portare avanti progetti importanti, come la Pedemontana. Il mio auspicio è che chi verrà dopo non si fermi per ideologia. Una volta che una cosa è avviata, bisogna finirla, altrimenti è sciocco fermarsi solo perché non ci piace».

Quali caratteristiche dovrebbe avere, secondo lei, il prossimo governatore?

«Serve una figura concreta, operativa, che dia continuità ai dossier aperti. La sanità, ad esempio, è un fiore all’occhiello, ma non è esente da problemi. Vorrei un interlocutore capace di affrontare tutto questo con pragmatismo. Niente estremismi, ma spirito di servizio».

Crede che un tecnico possa essere una buona opzione?

«Sì, potrebbe esserlo. Anche oggi gli imprenditori fanno politica, in senso istituzionale. Io stesso sono un imprenditore, ma cerco di dare il mio contributo al sistema. L’importante è saper collaborare: se la mia parte la gioco bene con il governatore, possiamo fare squadra».

C’è chi dice che Verona resti un po’ ai margini rispetto alle dinamiche regionali. È così?

«Verona ha una sua identità forte, è vero. Ne parlo spesso con l’assessore De Berti, che è veronese. Ci si lamenta di essere tagliati fuori, ma spesso si resta ai margini per scelta. È anche un fatto culturale: i veronesi sono abituati a fare da soli».

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Come vede la formazione dei nuovi poli nati aggregando le Confindustrie territoriali, come quello del Veneto Est, e le dinamiche centrifughe tra province?

«Credo che sia una dinamica naturale. Le aggregazioni nascono da esigenze comuni, e a volte l’unione fa la forza. Esistono delle “regioni economiche” che non coincidono con quelle amministrative. Penso al “diamante” Verona-Vicenza-Trento-Mantova-Brescia: hanno esigenze comuni, infrastrutture da sviluppare insieme. Il nostro compito è raccogliere queste istanze e riportarle nei luoghi decisionali».

Lei è il primo presidente regionale non proveniente dalla manifattura. È un limite?

«Me lo sono chiesto anch’io. Ma credo che venire dal mondo agricolo sia un punto di forza: ti insegna a convivere con la ciclicità, ad adattarti. L’industria è più lineare. Io non mi spavento: mi fermo, guardo e cerco di imparare. Prima o poi smette sempre di piovere, anche l’uragano Trump passerà. E poi si riparte».

Nel territorio si è parlato molto degli investimenti sfumati prima di Intel e poi di Silicon Box. Cosa non ha funzionato?

«A livello locale è mancata un po’ di lungimiranza, un po’ di lavoro di squadra. Il treno è passato. Capita anche su altri dossier: ad esempio sull’asse del Brennero, con Autobrennero pronta a investire nei treni merci, ci si perde in beghe di quartiere. Intanto il tempo scorre».

Come sta affrontando Confindustria Veneto l’arrivo dell’intelligenza artificiale?

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«È un passaggio epocale. Non mi spaventa l’idea che un domani qualcosa venga fatto da un algoritmo. L’intelligenza naturale, se c’è, è ancora superiore. Ma ci sono temi urgenti: la proprietà intellettuale, l’elaborazione dei dati, l’efficacia e la credibilità delle soluzioni generate dall’IA».

C’è un problema di rappresentatività dei corpi intermedi, compresa Confindustria?

«Forse sì, ma anche perché non si è fatto abbastanza per far sapere quello che si fa. Il lavoro di lobby c’è, è importante, ma poco visibile. Quando si realizza un’opera pubblica, spesso dietro c’è stata una pressione, una richiesta, una proposta partita da Confindustria. Ma queste cose non si raccontano, eppure sono fondamentali. Il senso di appartenenza va coltivato anche così».



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