Un commento su quanto sta accadendo oggi alla politica di coesione europea (approfondimento al primo numero della newsletter “Quale Europa. Cronache per capire, discutere, scegliere”)
Già con le prime anticipazioni sulla struttura del futuro bilancio UE 2028-2035, si era capito da che parte spirasse il vento per la politica di coesione europea, la più importante politica di investimento dell’UE volta a perseguire lo sviluppo armonioso del suo territorio, riducendone le disuguaglianze. Con la recentissima (1° aprile) riapertura dei termini della cosiddetta revisione di metà periodo della programmazione settennale in corso (2021-27), originariamente fissati al 31 marzo di quest’anno (e con buona pace delle conseguenze sulla tempistica di attuazione per lo slittamento di non pochi mesi della chiusura di questa revisione), il quadro si è fatto ancora più chiaro. Da un lato, infatti, è emersa con nitidezza la forza della spinta alla centralizzazione, trainata dalla seduzione del modello Next Generation EU, senza alcuna valutazione (che pure non mancano) della adeguatezza di questo modello ad una politica sensibile alle persone nei luoghi (place-based), quale la coesione non può non essere se resta interprete della missione assegnatale dal Trattato. Dall’altro, si è utilizzato il consueto esercizio di aggiornamento della programmazione in essere, per proporre modifiche anche radicali alle finalità perseguite, ancorché mitigate dalla volontarietà dell’adesione alle stesse, aprendo un varco a un loro stravolgimento.
Come risultato, vediamo proposta una struttura di bilancio nella quale la governance della coesione perde la sua fondamentale connotazione multilivello. Non solo: i 27 Programmi Nazionali che dovrebbero sostituire la pluralità dei programmi della coesione (certo da razionalizzare, ma non da eliminare) non saranno dedicati esclusivamente ad essa ma vedranno convergere, oltre ai fondi che tradizionalmente la sostengono (FESR e FSE), anche quelli della Politica Agricola Comune, il Fondo Asilo e Migrazioni, il Fondo Sociale per il Clima, per citare i più rilevanti. Una soluzione ufficialmente ispirata dalla necessità di ridurre gli oneri burocratici connessi alla gestione di molti programmi, più credibilmente dettata dal vento ormai imperante della cancellazione della complessità, che tutto travolge, in primo luogo la stessa realtà che invece, per essere presa in considerazione, richiederebbe di attrezzarsi per gestire questa complessità, non di ignorarla.
E vediamo anche una proposta di riorientamento della programmazione in corso che, accanto al rafforzamento di finalità meritevoli come l’housing, la transizione energetica, la resilienza idrica, il rilancio della competitività, introduce un obiettivo specifico espressamente dedicato alla difesa, per la realizzazione di infrastrutture dual use e per la mobilità militare e il sostegno alle aziende del settore, includendo fra di esse anche le grandi imprese, per di più senza alcuna limitazione territoriale. Quanto prospettato resta un salto epocale, per quanto si tenti di giustificarlo con argomentazioni legate ai benefici che ne deriverebbero anche per le imprese di minori dimensioni, e benché la tradizionale e più che giustificata esclusione delle grandi imprese dalla politica di coesione sia stata già intaccata nel 2024, con il varo dell’iniziativa STEP volta a rafforzare l’autonomia della UE in alcune tecnologie strategiche. Ma non finisce qui: con la stessa proposta, si rende infatti ammissibile il finanziamento delle reti energetiche di trasmissione, senza più vincolarlo al dispacciamento di energia prodotta da fonti rinnovabili, con buona pace del Green Deal. Il tutto viene motivato dalla necessità di tenere conto dei mutamenti intervenuti nel quadro geopolitico dopo l’avvio dei programmi 2021-27, peraltro approvati solo tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023, anche a causa del prolungamento sino alla fine del 2023 del ciclo precedente (2014-20), chiamato proprio a tener conto, con diverse modifiche, della crisi umanitaria ed energetica conseguente a questi mutamenti.
Sia ben chiaro, si tratta di modifiche che potranno divenire definitive una volta conclusosi il trilogo tra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo e che in ogni caso non vincoleranno le scelte delle amministrazioni responsabili dei programmi, cui spetta la decisione finale. Ma la pressione esercitata in tal senso è molto forte, visti i potenti incentivi messi in campo in termini di velocizzazione della spesa e riduzione degli oneri di bilancio: dalla maggiorazione degli anticipi erogati dalla Commissione europea che, per queste finalità, nel 2026 potranno salire al 30%, (un incremento ancora maggiore per chi trasferirà almeno il 15% dei propri fondi complessivi a tali priorità) alla cancellazione dell’obbligo di cofinanziamento nazionale per gli interventi a queste riconducibili. Una misura quest’ultima, che trova diversi precedenti nella storia della politica di coesione, pur sostanziandosi nell’indebolimento dell’effetto leva dei fondi UE e in una riduzione delle risorse complessive messe in campo dai programmi. Non una novità, dunque (purtroppo), ma il fatto che ciò avvenga per sostenere la difesa europea e le sue grandi imprese e per finanziare il dispacciamento delle fonti fossili, la dice lunga della torsione cui si vorrebbe oggi sottoporre la politica di coesione.
Una torsione presentata come modernizzazione. Invocando come pregio la flessibilità della politica di coesione non il metodo place-based che ne giustifica l’esistenza. Ma la modernità della politica di coesione non è in discussione, se è al rafforzamento dell’integrazione europea che teniamo, ritrovando i suoi principi fondanti. Riscoprendo con essi l’utilità e il valore di una politica, certo sì, da attualizzare (si vedano le proposte formulate a questo fine dal ForumDD nel libro Quale Europa), che tuttavia resta uno strumento insostituibile, se ben interpretata, per affrontare i cambiamenti in essere, costruendo solide prospettive per un’Europa più giusta e capace di trarre da questi cambiamenti la spinta per rilanciare il suo progetto costituente.
Facendo perno su di essa per imprimere nuovo slancio alla competitività europea, attraverso la valorizzazione del potenziale presente nei suoi territori, senza accentuare quella polarizzazione che, nel far emergere solo i più forti, alla fine impoverisce tutti, perché di molti trascura risorse e capacità, intrappolate da scelte sbagliate. Utilizzando la sua sensibilità ai luoghi per rendere giusta e inclusiva la transizione ecologica, a garanzia del suo successo, e per aprire l’accesso alla conoscenza e all’innovazione a chi ne viene escluso, valorizzando le potenzialità di attivazione di investimenti e lavoro che ne derivano. Costruendo, infine, sicurezza nei luoghi di vita e di lavoro delle persone, affrontandone i rischi climatici, economici e sociali, con politiche lungimiranti e un welfare capacitante e abilitante e non meramente riparativo o compensativo.
Ne abbiamo di esempi, e tanti, di come la coesione può agire in tal senso. A condizione di non invocare la sua flessibilità per renderla un contenitore buono per tutti gli usi, anche i più impropri.
da forumdisuguaglianzediversita.org
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